Avevamo comprato tutto. Tutto.
Era da poco passato il capodanno e continuavamo a scambiarci da giorni messaggi su fifi, trapani, cordini, cliff e tutta una serie di ammennicoli di cui non avevamo mai sentito parlare. Ma avevamo visto talmente tanti video su come chiodare dal basso che alla fine ci sentivamo come alpinisti al termine della loro carriera. Franco aveva tutto l’entusiasmo di chi non sa nulla di tecnica, ma ci si butta a capofitto perché ha voglia di scalare qualunque cosa: sarebbe poi diventato istruttore regionale. Michele era l’enciclopedia vivente del CAI, un minestrone di tecnica e apprensione tipico di chi non vuole lasciare nulla al caso.
Insomma, armati fino ai denti, ma senza una parete da chiodare. Dopo aver svuotato velocemente i portafogli, seguirono giorni grigi in cui facevamo girare il trapano a vuoto sognando di sentirlo cantare su delle pareti inviolate.
Avevamo grinta, ma non sapevamo dove andarla a trapanare.
Nel frattempo da qualche parte, in valle dell’Opol, Ramon Maj aveva individuato assieme a Matteo Pavesi, un insieme di pareti calcaree vergini: il luogo ideale per attrezzare una nuova falesia dedicata a suo figlio Igor, cui proprio questa valle aveva fatto sbocciare la sua passione per l’arrampicata.
La cooperazione sembrava poter funzionare e ci lasciarono quella che loro chiamavano “la parete dei focozzoni”: uno scoglio a loro dire “appoggiato” dove avremmo potuto sperimentare la chiodatura dal basso, mentre Ramon ed il resto della combriccola attrezzavano dall’alto il muro strapiombante della “Parete del Gorilla”.
Ecco che avevamo anche una parete. Avevamo tutto. O quasi.
Eravamo davvero in grado di chiodare un tiro dal basso? Secondo Franco, con facilità, qualche caduta e molta avventura non sarebbe stato un problema. Secondo Michele, no.
Fu allora, che forse in un delirio di ansia, forse mosso dallo spirito democratico che da sempre lo animava, coinvolse Luigi. Il duo diventò un trio: finalmente c’era un terzo, che non solo aveva grande esperienza nella chiodatura, ma era quello forte che avrebbe aperto gli orizzonti del gruppo.
Avevamo anche un trapano, un Dexter primo prezzo, comodo e leggero, ideale per chiodare dal basso. Cominciammo a chiamarci ironicamente Fratelli Dexter.
Il primo giorno in Opol non scalammo. Su quel pezzo di roccia che ci avevano affibbiato, imperava solenne una gigantesca pianta di edera. Spinto dalla voglia di avventura e di giardinaggio, Luigi trascinò la cordata per un canale di erba, foglie e sfasciumi: carichi di spazzole di ferro, martelli e seghe ad arco, giungemmo per vie traverse in cima alla parete, dove attrezzammo una sosta per calarci a guardare meglio la parete e pulirla.
Ci rendemmo conto che quel muro compatto non era affatto appoggiato. Nonostante ciò, a fine giornata dell’edera non v’era più traccia. Avevamo anche un nome per il settore. Lo scoglio dell’edera.
Passammo giornate intere quell’inverno a ripulire la parete da radici, licheni e rocce rotte, ed intanto il cantiere della falesia si animava sempre più: un piccolo gioiellino assolato con vista su tutto il lago d’Iseo. La nostra voglia di chiodare dal basso non scemò, ma una falesia è una falesia e ci accorgemmo ben presto che mentre noi piantavamo tre spit dal basso, tronfi della nostra etica, gli altri chiodavano tre interi tiri dall’alto; la passione per la chiodatura dal basso si tramutò in voglia di chiodare, di ricercare i tratti più belli di roccia, imparare a volare e a rispettare la montagna.
Assieme aprimmo l’Etica dell’Edera, l’unico tiro chiodato completamente dal basso, dove Franco fu libero di sbagliare ed imparare a chiodare.
Luigi chiodò e liberò Occhi di Granchio, dagli splendidi movimenti in strapiombo.
Michele scelse la linea più bella, chiodando Attraverso la Balena. A lungo sostenne (e continua a sostenere) di averla liberata.
Ma questa è un’altra storia.
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