Primi anni ‘80, un gruppetto di giovani climber era solito trovarsi, per allenarsi, in una palestra di Milano. La palestra nulla aveva a che vedere con le moderne palestre di arrampicata, affollate e piene di appigli in resina colorata, che siamo soliti frequentare negli ultimi anni ma era una palestra attrezzata per la ginnastica artistica e che quindi permetteva ai ragazzi di fare l’unica forma di allenamento per l’arrampicata del tempo: le trazioni alla sbarra. Trazioni in tutte le salse seguendo, spesso senza rispettarle pienamente, le terribili tabelle di allenamento tratte da “L’arrampicata sportiva” di Furio e Luca Pennisi (Ed. mediterranee 1984). Qualcuno tentava goffissimi esercizi agli anelli e alle parallele, imitando Yuri Chechi, o si spellava le mani sulla sbarra o sul muro in mattoni. Un tale Ivan (Guerini) e il muscolosissimo Angelino (Belloro) riuscivano addirittura a fare una trazione con un braccio solo! Fenomenale. Ma al cavallo con maniglie nessuno si avvicinava.
Tutto avveniva in un clima molto rilassato e privo di competizione e che immancabilmente aveva il suo epilogo in birreria.
Un giorno due del gruppo, Giovanni e Luca, si fissano un appuntamento in Medale. Era il 17 febbraio del 1985; in cinque ore la prima ripetizione, o meglio la prima salita, di tutti i tiri in continuità di Breakdance era fatta. Ora sembra un giochetto ma allora fu un bel risultato.I due si ritroveranno per anni in palestra o in falesia ma poi lavoro, figli, ecc. porteranno i due su strade diverse. Giovanni lascerà la sua firma di grande arrampicatore aprendo vie difficilissime in Medale, al Forcellino e al Pizzo d’Eghen; Luca, che vorrebbe aprire una via nuova ogni giorno, continuerà ad arrampicare, troverà nuove linee nel gruppo di Brenta e continuerà a sognare nuove pareti.
Febbraio 2017, 32 anni dopo i due si ritrovano ad arrampicare insieme, la cordata funziona, sembra quasi che non abbiano mai smesso di salire pareti insieme. I due si divertono, chiacchierano molto, ridono e arrampicano. Una bella stagione che culminerà con l’apertura di una via nuova, breve ma significativa: Mauro delle Montagne al Torrione Cecilia in Grigna.
A Luca non sembra vero di aver finalmente trovato un compagno ideale per fare quello che a suo parere ritiene essere la cosa più bella per un arrampicatore: aprire una via nuova dalla base alla cima, (perdonatelo è un alpinista e pensa sempre che ci sia una base e una cima) e comunque per lui questo è il massimo dell’avventura.
E così insistentemente obbliga il suo compagno a cercare una parete dove poter lasciare la loro firma.
Trovata! La parete Fracia, il Monte Spedone, in altre parole quel postaccio famoso per una difficilissima e pericolosa via di Ruchin ripetuta pochissime volte e su roccia talmente friabile che forse non si può definire roccia. Complimenti per la scelta, bravo Giovanni!
Comunque la parete è bella, solare e presenta una zona di roccia grigia, a destra della temibile parete rossa salita dal piccoletto di Calolziocorte, che forse potrebbe offrire una bella linea di arrampicata.
Primo approccio per “andare a vedere”, risalire lo zoccolo e raggiungere il punto dell’ipotetico attacco.
Impiegheranno tutta una giornata per avere la meglio dello zoccolo, un inferno di roccia che si sgretola, rami secchi, erbacce, massi enormi che vengono lanciati nel vallone sottostante; anche i ciuffi d’erba sono friabili.
Risultato: 4 soste, una con 6 chiodi uno peggio dell’altro, 80 m di pseudo arrampicata in diagonale ascendente, una calata in doppia, un traverso su prato, 15 m di erba verticale per arrivare nalmente all’attacco. Una fatica mostruosa, tanta paura, e sopra solo una parete verticale, molto verticale… Il grigio c’è ma inizia 20m sopra la base, si vedrà. Lasciate 100 m di fisse i due ritornano stanchissimi a Erve. Camminata, risalita delle fisse e finalmente si arrampica. Con loro questa volta trapano e fix. Ci sono voluti 45 anni di attività alpinistica, pazienza coraggio e “cliffate” senza respirare, per venire a capo del primo tiro, ma alla fine sono sotto la linea grigia.
Si accorgono però, dal primo movimento, che qui non si scherza, gli appigli e gli appoggi belli ci sono, ma a far loro compagnia tanti altri che si sgretolano al solo sguardo e una strana “crosta” rocciosa da togliere prima dell’uso. L’arrampicata è molto tecnica, bella ma anche stressante, per questa ricerca continua dell’unico appiglio buono tra i tanti, spesso il più piccolo.
In più giorni, alternandosi al comando i due proseguono, l’arrampicata è sempre più bella e, come in tutte le realizzazioni di vie nuove, chi sta in sosta aspetta ore, mangia, beve e si estranea, godendosi le piccole cose, i suoni, gli odori e i colori del piccolo mondo intorno alla sosta. Ogni tanto è svegliato dal compagno al comando che ha bisogno del suo aiuto, che, come lui, è immerso nel suo piccolo mondo fatto di pochi metri quadrati di roccia, nei quali cerca l’ap-piglio giusto per compiere un movimento che possa farlo progredire anche solo di pochi centimetri, un mondo dove suoni, odori e colori sono percepiti in maniera completamente diversa.
Tante emozioni, tanta fatica e tanta paura, tanti movimenti bellissimi di arrampicata, tanta soddisfazione. Alla fine sul prato della cima Luca urla “molla tutto”, Giovanni sale gli ultimi metri, uno sguardo, un abbraccio, a Luca scendono due lacrime per l’emozione, se ne accorge solo il Monte Spedone.
“L’amico ritrovato”, una bella via, una bella storia. Buona ripetizione e buona arrampicata.
Nota dell’autore: nei primi anni ‘80 gli arrampicatori di Milano non si definivano “climber”, i climber erano solo quelli di “Yosemite climber” dal noto libro di G. Meyers che, con il libro “Cento nuovi mattini” di A. Gogna, ha fatto sognare i giovani arrampicatori del tempo.
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