Sono ormai due anni che conosco la F.A.L.C., e dopo aver frequentato il corso roccia AR1 col mitico Paolo Serralunga ho scorrazzato per rocce più o meno imponenti. Da qualche tempo, però, ho voglia di provare a scalare su ghiaccio. La butto lì al suddetto Paolo, senza troppe speranze ( figuriamoci se ha voglia di sciropparsi una principiante, penso), ma fortuna vuole che lui stia per affrontare l’esame di Alta Montagna per diventare Istruttore Nazionale di Alpinismo, e abbia intenzione di sgranchirsi le gambe pestando un po’ di neve.
La destinazione: parete nord del Disgrazia, è scelta in base a meteo stabile garantito dagli elvetici (13- 14 giugno 2015). Leggo qualche relazione per prepararmi, recitano: “Da D a TD-, a seconda delle condizioni” – di chi, mie o della parete?!
I: “Paolo ma sei sicuro? Io non ho mai preso in mano due picche da ghiaccio”.
P: “Si si stai tranquilla, non è assolutamente niente di che, la parte più dura è l’avvicinamento, poi se il ghiaccio non ci piace, scendiamo”.
Così chiedo in prestito due picche a un amico e parto tutta agitata perché ho paura di stramazzare già sul famoso avvicinamento di 1500 m su ghiacciaio. Al bivacco Oggioni siamo in sei, il cielo è limpido, ma il mattino ci accoglie con vento forte e cielo completamente coperto. Tutti gli altri decidono di abbandonare la nave, mentre Paolo fa: “Proviamo ad andare all’attacco e vediamo come si mette?”
Io, che sono alle mie prime esperienze in alta montagna, mi fido ciecamente. Giungiamo sotto la terminale e in alto le nuvole viaggiano velocissime. Paolo mi dice che sì, c’è un po’ di vento, ma che il meteo sembra tenere e poi magari si apre. Se superiamo la crepaccia però poi si esce solo dall’alto. Mi chiede se anche io sono convinta, e io penso: “Io?! Ma che ne so! Non ho nemmeno ben capito come si impugnano ‘sti due affari che ho in mano!!! E poi.. perché tutti gli altri se ne sono andati?!”, invece dalla mia bocca esce: “Beh in effetti non piove, per me si può fare!”.
E via in conserva, Paolo piazza friend in posti che solo lui può intuire, ci fermiamo sotto il tratto chiave della salita, una corta goulotte che spesso ha fuori ghiaccio vivo. Fino lì, la neve è stata fantastica.
I: “Wow che bello! Ora però arriva il ghiaccio, fai sosta alla fine del duro, che ho paura di non riuscire a passare!”
P: “Certo certo, però se vedi che finisce la corda parti..!”
I: “D’accordo, ma tu valuta bene eh, non l’ho mai fatto! Tra l’altro, ho veramente fame, mangio una barretta un secondo”.
Non faccio in tempo a scartarla che Paolo è schizzato via (fa anche un freddo boia a star fermi, a onor del vero). In qualche modo riesco a ingurgitare la barretta mentre faccio passare la corda, e Paolo sparisce dalla vista. Ovviamente la corda finisce e inizia a tirare. Dopo pochi metri ancora facili mi ritrovo in una tipica posizione a rana (che non abbandonerò nemmeno negli anni a venire.) tirando come una pazza di braccia, e scoprendo in-action che bisogna calciare i ramponi con decisione, non basta accarezzare il ghiaccio chiedendogli cortesemente di sostenerti.
Per fortuna il tratto “duro” è corto, segue “facile” rampa in cui però Paolo va alla velocità della luce, ed io inizio a sentire la quota e la fatica. Facciamo circa 250 m di dislivello filati, in cui io ringrazio ogni volta che trovo una vite per-hé così posso fermarmi a tirare il fiato. Sbuco in cresta con la lingua di fuori e il naso che cola, sono investita da un vento patagonico, non si vede una mazza. Scorgo Paolo accovacciato e intabarrato stile burka integrale che mi recupera, raggiungiamo il bivacco Rauzi in vetta in un turbine di neve.
Giusto il tempo di scaldarci e mettere tutti gli strati che abbiamo, e si parte per la fila di doppie sulla Corda Molla. La corda risale da sola per il vento, e dato il nebbione sempre più fitto accade l’inevitabile: a un certo punto perdiamo la linea di calate. A questo punto, mi sto chiedendo se ho fatto davvero bene a fidarmi e partire, o se forse avevano ragione quelli che si sono defilati e siamo in giro alla bersagliera… ma la calma granitica e il consueto aplomb del mio socio fugano ogni dubbio! Dopo un po’ di sano ravano e imbarazzanti tentativi da parte mia di risalire una placca rocciosa con i ramponi, al prezzo di un kevlar nuovo fiammante abbandonato, torniamo sulla retta via e ripassiamo la terminale. Siamo salvi!
…In realtà, no. La discesa normalmente si svolge sul ghiacciaio della Vergine, tormentato dai crepacci e delicato nella parte più alta. Non si vede assolutamente nulla, un brevissimo scorcio rivela a qualche decina di metri da noi una seraccata impressionante. Presto ci rendiamo conto che sarebbe davvero incosciente scendere da lì senza vedere niente e senza conoscere la strada. Non ci resta quindi che risalire al colle Kennedy, ripassare al bivacco Oggioni, e rientrare dalla via del giorno prima, aggiungendo una quantità non indifferente di metri di dislivello.
In discesa ormai sono completamente devastata, ricordo Paolo che quasi mi trascina di peso perché io perdo i ramponi e incespico. Il ritorno più complesso del previsto fa si che siamo un po’ in ritardo sulla tabella di marcia e Paolo è preoccupato che a casa s’inquietino, quindi ci tiriamo insieme e ci affrettiamo a raggiungere la macchina.
Il giorno dopo non riesco più a muovere un muscolo e nelle settimane successive perderò un’unghia del piede per gli scarponi troppo stretti, ma il morale è oltre le stelle! Ancora adesso, quando ripenso a quei vortici di vento e neve, mi si stringe lo stomaco e rimango senza parole. Non potrò mai ringraziare abbastanza il mio compagno di cordata per avermi iniziata a questo mondo, e a tutte le avventure che ne sono seguite.
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